mercoledì 25 gennaio 2012

La qualità architettonica e la città. Riflessioni dopo una visita ad Orta San Giulio.

Sono qui seduto sul molo dell’Isola di San Giulio, sulla calda pietra che nella sera cede lentamente il calore che il Sole le ha dato di giorno. Guardo la costa, verde e alberata, quasi senza case, lontana.

Ascolto il leggero sciabordio delle onde e chiudo gli occhi. Il ricordo di questo luogo si fa dolce in me. Come un luogo rifugio dove portare la mente nei momenti difficili, un luogo che mi ascolta perché lì io stesso riesco ad ascoltarmi.

Tutta l’Isola di San Giulio ha qualcosa di assolutamente magico, un’aura che la circonda, qualcosa che la definisce come altro dal resto del mondo ma che allo stesso momento la fa rappresentazione di un mondo perfetto, o almeno di un piccolo mondo, di qualcosa di finito in sé.

Forse un luogo è proprio questo: qualcosa di talmente forte e dotato di una sua intrinseca autonomia (spirituale, soprattutto) da farne qualcosa di completo, racchiuso. Qualcosa che non ha più bisogno di altro.

Questa sensazione è forte e presente in tutto il Lago d’Orta. Orta San Giulio, il Sacro Monte e l’Isola hanno un senso di perfezione e di ‘ben fatto’ talmente potente da farti dire: ma perché il mondo non è tutto così? Forse con un po’ di invidia pensi alle ottanta clarisse che vivono nel monastero sull’isola, e sorridi.

Poi di colpo ti attraversa un pensiero e la tua mente è catapultata ad esempio in una strada del Manhattan Midtown e pensi al paragone impossibile tra Orta e New York City e dici beh è facile, basta negare la modernità, o relegarla oltre il lago, in modo che da qui non si veda.

Ma sai che stai mentendo a te stesso, perché non è così.

A ricordartelo è sufficiente quella grande discoteca dall’altra parte del lago, che tanto ti ricorda uno degli ultimi edifici di Wright. No, Orta non nega affatto la modernità. E la modernità non è il male. Male è essersi dimenticati di cosa voglia dire essere uomini, di cosa sia il nostro rapporto sano con la natura. Di cosa siano la città e l’architettura nella loro essenza più profonda, spirituale e civile.

Il male non è la modernità, ma lo sono la fretta e l’economia fine a sé stessa. Sono cambiati i parametri della costruzione: un tempo si costruiva per realizzare qualcosa (di utile e bello). Oggi si costruisce per vendere, la qualità del prodotto non interessa quasi più.

Dal secondo dopoguerra le nostre città sono esplose e l’architettura non è stata più in grado di disegnarle, progettarle, definirle. Al suo posto sono intervenuti fattori economici e storici che hanno determinato un radicale cambiamento del rapporto tra l’uomo, il paesaggio e l’uso del suolo. Si è passati dalla ‘città nel paesaggio’ alla ‘città continua’, che occupa tutte le pianure e gli spazi costruibili. Che contiene al suo interno le attività produttive, le cave, gli impianti industriali e sempre meno campi coltivati o boschi.

Ci siamo dimenticati, per forza di cose, quanto sia potente l’influenza della qualità architettonica sulla qualità delle nostre vite. Ce ne ricordiamo quando passeggiamo per le calli di Venezia o nel Barrio Gotico di Barcellona.

Il Lago d’Orta è intriso di questa potenza, della potenza della bellezza. San Giulio è l’isola di pietra, l’isola costruita, dove tutto è progettato e disegnato, dove si entra passando per un arco, come si entrasse in un tempio, o in una città antica circondata da un altopiano infinito e battuto dal vento. Si entra in un regno. La fantasia vola e sorridendo la paragoni a Minas Tirith, pensando a Tolkien.

Viviamo un’epoca di ripensamenti. L’espansione urbana non è più così esplosiva come nei decenni scorsi, almeno nel mondo occidentale. Viviamo un’epoca in cui si può cominciare ad operare per ricuciture, a dare qualità ai nostri vituperati quartieri periferici intervenendo sui vuoti che li separano, dando qualità architettonica, verde disegnato, spazi di incontro, luoghi di cultura.

La lezione del Lago d’Orta è chiara e semplice: attraverso un disegno dello spazio architettonico di qualità è possibile un tipo diverso di vita, di qualità degli incontri, di percezione dello spazio e delle relazioni umane che in questo spazio vivono e si alimentano. Il centro con la piazza a lago, la loggetta del mercato e la via/scalinata che sale alla chiesa, che di per sé è un’impostazione urbana e architettonica già di primissima qualità, è contornata dalle gemme dell’Isola di San Giulio e del monte sacro, che in un parco che fa terrazza sul lago costituisce un vero e proprio compendio di architettura sacra barocca, con le sue venti cappelle devozionali una diversa dall’altra.

La qualità urbana non è però necessariamente legata all’architettura antica, e su questo punto amplio il mio ragionamento e, usando solo come spunto il Lago d’Orta, provo a fare un ragionamento che per funzionare scardina alcune regole.

Possono non esserci moltissimi spazi urbani di riconosciuta qualità architettonica di realizzazione ‘moderna’, ma il motivo non risiede nella mancanza di talento o di ‘linguaggio’ degli architetti moderni e contemporanei, bensì nella crisi delle ragioni che stanno alla base del costruire accennate più sopra. Senza troppo ordine elenco alcuni interventi di qualità contemporanei per dimostrarlo: mi vengono in mente il quartiere del Weissenhof a Stoccarda, l’intervento di Cino Zucchi all’area ex-Junghans alla Giudecca a Venezia, il Rockfeller Center a New York o quasi tutta la Fifth Avenue, il Capitol di Chandigar, la zona di Market Street a San Francisco, molti interventi della Londra o della Barcellona contemporanee, fra cui cito l’area litoranea attorno al Forum di Herzog e De Meuron nella capitale catalana.

Forse il fallimento dell’urbanistica moderna (soprattutto in Italia) sta proprio nella pretesa di volere governare tutto attraverso piani regolatori che determinano le densità edificatorie, le destinazioni d’uso e poco più e avere rinunciato troppo spesso ad accontentarsi anche solo di ‘disegnare’ un piccolo pezzo di città e di farlo lasciando perdere le regole e concentrandosi invece sulle qualità specifiche di quel luogo e degli edifici che lo andranno a determinare.

Sì, lasciando perdere le regole.

Perché per disegnare una città umana bisogna riprendere in mano la matita, o il computer, e non partire da volumi e indici ma da vedute e spazi, verde, materiali, luce. Relazioni umane, luoghi civici. Il potere dell’architettura come elemento che ci rappresenta. Il significato della monumentalità.

Non voglio né negare le conquiste dell’urbanistica moderna e contemporanea né dimenticare l’estrema complessità di questa disciplina. Ma se questa disciplina non parte dal chiedersi perché determinati spazi ci fanno stare bene e altri no, perché sentiamo un profondo senso di identità in alcuni luoghi e in altri no questa disciplina continuerà a funzionare male e a produrre risultati scadenti.

Gli architetti, gli urbanisti, gli amministratori e i cittadini a cui sta a cuore la vita dell’uomo possono partire da questo. Non dai metri cubi. Non dagli indici. Non dall’arricchimento dei soli operatori economici del settore. Non dalla fretta. Non dal mito della produzione a tutti i costi.

Winston Churchill diceva sempre che ogni popolo ha i governanti che si merita.

Forse ogni popolo ha anche le città che si merita. Ma ogni popolo può, a partire da un dato momento, provare a costruire la città che desidera.